Ci sono due modi di sentire la solitudine: sentirsi soli al
mondo o avvertire la solitudine del mondo. Chi si sente solo vive un
dramma puramente individuale; il sentimento dell’abbandono può
sopraggiungere anche in una splendida cornice naturale. In tal caso
interessa unicamente la propria inquietudine. Sentirti proiettato e
sospeso in questo mondo, incapace di adattarti ad esso, consumato in te
stesso, distrutto dalle tue deficienze o esaltazioni, tormentato dalle
tue insufficienze, indifferente agli aspetti esteriori – luminosi o
cupi che siano –, rimanendo nel tuo dramma interiore: ecco ciò che
significa la solitudine individuale. Il sentimento di solitudine
cosmica deriva invece non tanto da un tormento puramente soggettivo,
quanto piuttosto dalla sensazione di abbandono di questo mondo, dal
sentimento di un nulla esteriore. Come se il mondo avesse perduto di
colpo il suo splendore per raffigurare la monotonia essenziale di un
cimitero. Sono in molti a sentirsi torturati dalla visione di un mondo
derelitto, irrimediabilmente abbandonato ad una solitudine glaciale,
che neppure i deboli riflessi di un chiarore crepuscolare riescono a
raggiungere. Chi sono dunque i più infelici: coloro che sentono la
solitudine in se stessi o coloro che la sentono all’esterno?
Impossibile rispondere. E poi, perché dovrei darmi la pena di stabilire
una gerarchia della solitudine? Essere solo non è già abbastanza?
— Emil Cioran, Al culmine della disperazione
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